Baristi giapponesi: a scuola in Italia per essere ancora più preparati

di Roberto Sala

Barista. Il suo locale, il Mary’s Bar di Costa Masnaga, nel Nord Italia, fu fondato nel 1928 dai bisnonni. Cresce tra macchine, sacchi e tazzine. Quindici anni fa eccolo dietro al bancone. Dal 2001 è assaggiatore di caffè ed Espresso Italiano Specialist. Nel febbraio 2007 è eletto consigliere dell’Istituto Internazionale Assaggiatori Caffè, primo barista a ricoprire questa carica.

Ho avuto recentemente l’occasione di ospitare nel mio bar alcuni baristi giapponesi. Accompagnati dalla sempre efficiente Yumiko Momoi, il segretario generale dell’Istituto Internazionale Assaggiatori Caffè per il Giappone, abbiamo trascorso insieme alcune ore nel mio locale. Un’ottima occasione per parlare di espresso e cappuccino e per lavorare insieme alla macchina. Ad accompagnare il gruppo infatti c’era anche Chihiro Yokoyama, collega più volte vincitore del campionato baristi giapponese.

Prima considerazione: tutti i baristi in visita hanno dimostrato una competenza approfondita e specifica sulla filiera del caffè. Detto in modo più chiaro: conoscono il percorso del prodotto che lavorano ogni giorno. Hanno ben chiare le differenze tra specie, quelle tra le lavorazioni del verde e così via. Non è poco: solo conoscendo a fondo la filiera si può valorizzare un semilavorato come il caffè, fare in modo di estrarre le sue specificità sensoriali.

Seconda considerazione: è spiccata la preferenza per caffè con un’acidità pronunciata. I giapponesi legano molto questo carattere alla persistenza dell’espresso. Apprezzano le miscele dell’Italia del Nord proprio per la loro fresca acidità, ma richiedono comunque un prodotto molto delicato. Questo soprattutto per una ragione culturale: la cucina giapponese è di per sé un baluardo della delicatezza di aromi e sapori. Sempre a questo proposito, la conferma della preferenza per caffè acidi è arrivata dall’assaggio di un Guatemala in purezza (che per l’occasione ho lavorato con la classica moka italiana, perché prodotto molto delicato che la macchina espresso avrebbe potuto danneggiare). Ad ogni modo i baristi giapponesi sono ben consci dell’importanza della miscela: le monorigini, seppure interessanti, sono comunque incomplete anche a parer loro. Questo è un punto importante di condivisione con la cultura italiana dell’espresso.

Visioni differenti invece sul cappuccino. Diciamolo subito: i giapponesi, come moltissimi dei consumatori fuori dai nostri confini, lo adorano. C’è però una differenza tra il nostro cappuccino e il loro. La preparazione tradizionale italiana prevede infatti che non ci sia separazione di fase tra il latte montato e il caffè. L’espresso deve essere amalgamato con il latte montato, l’obiettivo è una cremosità uniforme. Caratteristica che, secondo quanto riferito proprio da Yokoyama, il consumatore giapponese non apprezza del tutto. Per questo il cappuccino nipponico prevede un’amalgama tra espresso e latte e uno strato di crema finale che viene poi spesso decorato. In questo modo alla bevanda viene regalata una nota di morbidezza tattile dovuta proprio al top di latte montato, ma questa cremosità non si estende al cappuccino nel suo complesso. E’ una variante della ricetta italiana per andare maggiormente incontro alle preferenze del pubblico giapponese. Un pubblico che è ben fortunato a essere servito da professionisti di livello.

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