Buono o cattivo, si paga uguale

di Luigi Odello

Segretario generale dell’Istituto Internazionale Assaggiatori Caffè, è professore di Analisi sensoriale alle Università di Udine, Verona e Cattolica di Piacenza. E’ inoltre presidente del Centro Studi Assaggiatori e segretario generale dell’Istituto Nazionale Espresso Italiano.

L’espresso al bar è rimasto uno dei pochi prodotti del Bel Paese dotati di forte valenza edonica che si paga uguale, buono o cattivo che sia. Il suo prezzo dipende infatti molto più dalla latitudine – al Sud costa mediamente meno – che non dal piacere erogato.
State a sentire: due bar in zona Loreto a Milano, tutti e due di gradevole aspetto e di dimensioni ragguardevoli. Il primo, il Bar Gatto dotato anche di un ampio spazio all’aperto. Entro e vengo accolto da un bancone sfavillante dietro il quale campeggia una luccicante Faema posta in modo che il barista non volga le spalle al pubblico. Ordino un caffè e il barista prontamente lo mette in macchina. Non posso vedere più di tanto come compie le operazioni, ma mi pare si muova con professionalità. La prima sorpresa: appena compiuta l’operazione esce dal suo spazio, viene al bancone e mi dice: «Guardi, ne ho fatti due, perché uno lo bevo io, scelga quello che le piace di più». Ragazzi, per un istante ho creduto di non essere a Milano. Osservo i due espresso: in uno c’è una leggera macchia bianca – il solito problema che le due uscite del gruppo non danno quasi mai caffè gemelli – e quindi prendo l’altro. Bella crema color nocciola di tessitura fine, un aroma leggermente floreale al naso. In bocca è setoso, ben bilanciato tra amaro e acido, e poi sviluppa un’aroma complesso in cui si scorgono pan tostato, cacao, frutta essicata e frutta secca. Chiedo il nome della miscela perché non c’è modo di rilevarlo: Prestige della Covim. Mi complimento, faccio quattro chiacchiere e pago: € 0,80.
Proseguo nella mia opera di visite ai bar nell’ambito della ricerca sulla qualità dell’espresso indetta dall’Istituto Internazionale Assaggiatori Caffè e, poco più avanti, entro in un altro bar elegante dal nome accattivante: Bar del Corso. Anche qui il personale è cortese. Entro sul discorso, in quei giorni di grande attualità, del prezzo del caffè a Milano. Mi assicurano che non lo aumentaranno fino a quando il fornitore non aumenterà loro la miscela. Ordino un espresso e prontamente il barista sgancia il gruppo da uno di una bella Cimbali, lo carica con una battuta netta, lo pressa con energia, elimina i granellini di caffè sul bordo del filtro, lo aggancia al gruppo e osserva il caffè mentre scende, cessando l’erogazione nel momento giusto. Nulla da dire, il suo mestiere lo sa fare e ha una buona coscienza della professione.
Me lo porge e lo osservo. La crema ha un colore giusto, ma la tessitura è grossolana. Al naso si avverte netto il sentore di paglia, erba secca e terra bagnata. In bocca è corposo e spesso, ma appena deglutito il sorso, la lingua si fa rasposa e l’interno della guance raggrinzisce. Compaiono a livello retrolfattivo gli stessi sentori percepiti per via nasale, ma sono più potenti e fastidiosi ancora. Pago: € 0,90. E memorizzo il nome della miscela: Hardy. Mi avvio verso il bar successivo, in compagnia di un’astringenza che non intende lasciare il mio cavo orale. Spero di trovare di meglio, ma mi è passata la voglia di caffè e ho paura di non essere un buon giudice per il campione che mi sarà somministrato.

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7 Commenti a “Buono o cattivo, si paga uguale”

  1. Alessandro Staderini scrive:

    Gentilissimo Sig. Odello,
    condivido in pieno le sue osservazioni sull’argomento trattato. Per anni ho gestito la caffetteria di famiglia, considerando l’espresso il punto forte di questo tipo di attività. Serviamo giornalmente, ormai da più di 30 anni, una media di 1500 tazzine di caffè, della miscela che mio padre introdusse all’epoca. Una miscela, composta da dieci qualità di arabica (80%) ed una robusta selezionata (20%), cercando di far conoscere alla clientela la differenza fra arabica e robusta. Trenta anni fa, come Lei ben sa, la differenza fra arabica e robusta era una nozione per “accademici” e pochi altri. Detto questo, mi sembra che la cultura del prodotto, con tutto le conseguenze, sia rimasta ferma a quei tempi, o poco più.
    Finchè la stragrande maggioranza dei gestori di locali, grandi o piccoli che siano, considererà la qualità della miscela l’ultima richiesta da fare al torrefattore, non ci possiamo meravigliare se allo stesso prezzo continueremo a prendere delle “ciofeghe” o dei caffè degni di questo nome.
    Un saluto con l’invito di non mollare nella Sua battaglia per un espresso di qualità.

    Alessandro Staderini

  2. matteo moruzzi scrive:

    Parlavo a proposito di questo giusto ieri con una mia cliente,io lavoro per una torrefazione di bologna,copro la zona di modena.
    Lei trovava ingiusto che il costo della tazzina sia lo stesso per ogni caffe’, che sia un ottimo caffe’ o che sia un ‘espresso di scadente di qualita’.
    Io,da buon venditore gli ho evidenziato il fatto che questo puo’ condizionare la scelta del locale dove si puo’ gustare l’espresso che il cliente preferisce e che questo fa’ fare la differenza alle attivita’.
    Ma a pensarci bene sarebbe un sogno poter pagare un caffe’ in base a che tipo di espresso viene proposto.
    Sicuramente i baristi si impegnerebbo di piu’ ad estrarre la propria miscela e ad ottenere il massimo.

  3. matteo moruzzi scrive:

    ………purtroppo i sogni fanno fatica ad avverarsi,e domani c’e’ un furgone di caffe’ da scaricare.
    un saluto a chi come voi, combatte tutti i giorni per raggiungere forse un’obiettivo impossibile da realizzare. grazie

  4. Luciano Nodari scrive:

    Sono anchio venditore di Caffè e trovo spesso quando lo propongo che i baristi prima ancora di assaggiarlo mi chiedano il prezzo e dicano :”costa troppo”….prima te lo faccio assaggiare come si deve cioè eseguendo loperazione indiretta sotto i suoi occhi…altrimenti succede che se gli lasciate il kg da provare al 99 per cento dira che non è venuto bene….odiano toccare la macinatura perche gli sconbussola tutto…e sentirti dire mentre la regoli..non toccarmela.. mi vien da ridere e lo tranqullizzo.

  5. Roberto Troian scrive:

    Premetto che non conosco le due miscele interessate alla prova del Sig. Odello, ma volevo porgli una domanda; come fa ad avere la certezza che i caffè che sono stati preparati per lui siano stati estratti veramente dalle miscele dei torrefattori pubblicizzati sull’insegna o sulle bustine di zucchero?
    Purtroppo, infatti, è prassi utilizzata da alcuni gestori di bar il taglio o addirittura la sostituzione in toto della miscela del proprio torrefattore con miscele di caffè acquistate ai DISCOUNT ed estratte con attrezzature fornite dal torrefattore “ufficiale” che poi ne paga le spese sia in termini di costi non ammortizzati, che di immagine.

  6. Luigi Odello scrive:

    Lo so da me: rasento la maleducazione con la mia latenza a intervenire sugli scritti di chi onora i miei di tanta attenzione e, soprattutto, con considerazioni così belle.
    Alessandro Staderini dice che la qualità della miscela è l’ultima richiesta del barista e credo abbia una buona parte di ragione. Ma quanti baristi sanno riconoscere la qualità di una miscela e sanno fare un espresso di qualità? Se l’epoca della pietra non è finita perché sono finite le pietre, l’epoca del vino cattivo non è terminata perché i vignaioli non lo producevanoo più, ma perché i consumatori avevano imparato a rifiutarlo. Così penso per l’espresso al bar: riusciremo ad avere un prodotto migliore acculturando il barista, ma soprattutto mettendolo in condizione di diventare un vero competente. E qui ci vuole la buona volontà di tutti. Da un po’ di tempo sto facendo un’esperimento personale: se al bar mi danno un caffè cattivo ne lascio metà nella tazza e vedo se il barista si preoccupa. Bene, per ora meno di uno su tre mi chiede il perché. Mi sa che tra un po’ proverò a dire che non lo pago. Per inciso: io sono un buon consumatore di caffè, superiore alla media nazionale. Mi piace proprio e quando me lo danno cattivo la sofferenza va oltre l’affronto personale che subisco.
    Matteo Moruzzi: tutto ciò che l’uomo può pensare si può realizzare, quindi i sogni si avverano, il problema è che non si sa quando.
    Luciano Nodari: perfetto! Tra i corsi che sono ogni tanto chiamato a tenere ce n’è uno (quello di interazione sensoriale), riservato ai venditori di caffè, che insegna a utilizzare il prodotto come mezzo di comunicazione con il cliente. E dico sempre di fare come lei fa abitualmente: lasciare il campione credo che serva a ben poco, usarlo insieme al cliente, superare con lui l’ansia di regolare la macinatura, entrare nel tecnico diventando consulente credo sia la via del futuro.
    Roberto Troian: ha ragione, la sicurezza non ce l’ho fino quando non mi fanno vedere il pacchetto in uso. Proprio un annetto fa sono uscito con un post sul sensory blog dove parlavo di una miscela che non era quella dichiarata dalle tazzine. Io sono dell’idea che il consumatore abbia il diritto di sapere quale caffè beve, vorrei molte più informazioni, ma soprattutto essere certo della marca. E vorrei addirittura poterla vedere prima di entrare nel locale, in modo da cambiare bar, se non mi va.

  7. Alessandro Mustaccio scrive:

    Salve,
    mi piace bere caffè ma non sono un esperto infatti quello che per me può essere un’ottimo espresso magari non lo è affatto in termini di qualità alla sorgente. Non credete che l’inserimento della tracciabilità del singolo chicco possa garantire in un certo senzo la qualità del prodotto? un pò come si deve fare, per legge, in alcuni alimenti messi in vendita nei vari centri commerciali. Una sorta di certificato che il torrefattore deve fornire, sempre per legge, al gestore del bar che a sua volta ha l’obbligo di esporre nel proprio esercizio.
    Un saluti e complimenti per il sito.