Perché se il vino sa di tappo lo posso rifiutare mentre il caffè lo devo pagare?

di Luigi Odello

Segretario generale dell’Istituto Internazionale Assaggiatori Caffè, è professore di Analisi sensoriale alle Università di Udine, Verona e Cattolica di Piacenza. E’ inoltre presidente del Centro Studi Assaggiatori e segretario generale dell’Istituto Nazionale Espresso Italiano. 

C’è una strana combinazione nella chimica degli alimenti, che ci può essere molto utile per comprendere quanto il comparto del caffè sia decisamente meno maturo di quello del vino.

Entrambe le bevande possono contenere il tricloroanisolo (e relativi compagni), già percepibile a livello di una parte per trilione (soglia di percezione in aria, nel caffè e nel vino è un po’ più alta), che viene considerato dal nostro sistema sensoriale una minaccia e quindi rifiutato nel modo più categorico.

In effetti neppure l’osteria di periferia si rifiuta di sostituire una bottiglia di vino a un cliente se sa di tappo, mentre nel caffè la gente si tappa il naso e lo beve. Eppure da uno storico che andiamo da anni costituendo si evince che una notevole quantità di caffè in commercio ha concentrazioni di tricloroanisolo ben al di sopra della soglia di percezione, persino di 500 volte. Eppure continuano a circolare impuniti.

Ma, se vogliamo parlare di difetti possiamo sbizzarrirci con la geosmina dal sentore di terra e legno marcio, con la pirazina che sa di vegetale (pisello, cicoria, dipende da cosa l’accompagna e dai livelli di presenza), con dimetilsulfide e dimetildisulfide, entrambi donatori di sentori fetidi, o con il più pacato vinilguaiacolo che a livelli elevati sa di fumo e di bruciato.

Sono solo alcuni esempi, perché nel corso sui difetti del caffè, che sta mettendo a punto lo Iiac, gli assaggiatori potranno cimentarsi con una ventina di questi, rendendo sicuramente la loro giornata indimenticabile. E’ necessario fare questo passo, per creare un argine al prodotto di cattiva qualità che circola impunito sul mercato, per identificarlo con precisione e dire al barista che se lo beva lui.

Proprio per questo molti argomenti correlati ai vizi e alle virtù sensoriali del caffè, come si originano e da quali composti vengono dati, si parlerà già durante i moduli del Master professional in Analisi Sensoriale e Scienza del Caffè che si svolgeranno dal 22 al 24 settembre prossimi.

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4 Commenti a “Perché se il vino sa di tappo lo posso rifiutare mentre il caffè lo devo pagare?”

  1. cesare scarpellini scrive:

    La risposta è pratica: del vino contestabile acquistiamo normalmente 1 bottiglia che costa non meno di 10 €, del caffè un sorso, cioè una bevuta, circa 1 €.
    Quando si rifiuta un vino, si rinuncia a proseguire il rito della consumazione, rifiutandosi di procedere oltre.
    Con un caffè ciò risulta difficile, poichè sono circa 25 ml in tutto…(e per di più irripetibili!)

    Per cui di solito si preferisce perdere l’euro ed evitare il posto per la volta successiva…anche perchè un’altra differenza c’è: nel vino si presuppone che l’oste sia stato sfortunato nella selezione della bottiglia (o ancor meglio della “partita”, poichè spesso le bottiglie deteriorate non sono mai una soltanto, per via della proliferazione dei microrganismi in via di conservazione, prima dell’imbottigliamento!); mentre il caffè è una preparazione, cioè dipende molto da chi lo serve.
    Visto che il caffè presuppone una certa predisposizione in chi lo seleziona a monte, ma anche in chi lo prepara, più difficile è contestare il “cosa” non va.
    Anche se è del tutto chiaro a chi è del mestiere se il caffè è sbagliato nel chicco, nella miscela, nella tostatura, nella conservazione, nella macinazione o nella mano improvvida del (della) banconista…

    Il lavoro per migliorarci (noi tutti), non manca…

    Auguri di buone vacanze,
    Cesare Scarpellini
    SCARPELLINI FOODRINKS

  2. Luigi Odello scrive:

    Ringrazio Cesare Scarpellini per il contributo, che oltretutto mi consente di rincarare la dose. Può succedere, nel vino, che un’intera partita sappia di “tappo”, ma è sempre più frequente che sia solo un esemplare su un cartone a presentare questa anomalia. In ogni caso le aziende vinicole vengono incontro al ristoratore e, pagando l’errore di persona (anche se poi tentano di rivalersi sul fornitore di tappi), sono diventate estremamante attente negli acquisti, per molti vini hanno addirittura abbandonato il tappo in sughero. Nel caffè invece c’è la più assoluta impunità sia per il barista, sia per il torrefattore, salvo il fatto che giustamente si cerca di cambiare bar. Ma a forza di non dirlo a nessuno, nel giro di un paio di generazioni berremo il caffè riato che una vola contestavamo ai Balcani. O forse berremo orzo o ginseng: tanto i torrefattori e i baristi si sono adeguati, e se la gente non prende più il caffè loro vendono altro, guadagnandoci anche di più. Ma non è così che si aiuta a migliorare la qualità della vita. E’ inutile poi dire che i bar hanno cali forti nel consumo di caffè perché negli uffici si mettono le macchinette. Ma se l’espresso al bar fosse davvero quell’opera d’arte che deve essere, perché la gente non dovrebbe lasciare l’ufficio per godere di una pausa?
    La qualità nasce nel momento in cui non ci sono difetti. La cura che passa attraverso l’insegnamento dei difetti potrà essere traumatica, lunga, di esito incerto. Ma per la difesa del caffè italiano vale la pena di tentarla.

  3. Palazzi Marconi Luciano scrive:

    Mi ricollego alla mia precedente comunicazione circa l’appunto che un barista di Formigine aveva avanzato sul fatto che i torrefattori non fornirebbero sufficienti informazioni sul prodotto e che i rappresentanti sarebbero ottimi commerciali ma scarsi intenditori.
    Confermiamo che la nostra azienda (micro torrefazione) ha, come anticipato con una precedente comunicazione qui pubblicvata, organizzato una serata con invito pubblico ed in luogo pubblico per approfondire la conoscenza del caffé, con degustazione finale. Forse l’ambientazione appositamente creata, forse il desiderio di saperne di più od altro hanno contribuito a stuzzicare la curiosità di molti consumatori che hanno partecipato, intervenendo fattivamente nel dibattito che si era aperto.
    Devo sottolineare che non ha partecipato alcun barista.
    Il tema della serata non era publicizzare il nostro prodotto, bensì fornire le conoscenze nate dalla nostra esperienza sul caffé, a tutti coloro che ne volevano sapere di più.
    Devo dire che la cosa più interessante che ci ha colpito è stata l’attenzione prestata dal consumatore sulle caratteristiche che distinguono i prodotti in base alle quali, se informato, deciderà quale scegliere.
    Il compito principale degli addetti ai lavori deve quindi essere questo: dare più informazioni al consumatore, al degustatore del caffé che sarà sempre più esigente sulla qualità ed allora rifiuterà anche il pessimo caffé alla stregua di un vino che odora di tappo.
    Le aziende vinicole hanno da tempo investito sulla conoscenza del prodotto con iniziative intelligenti dirette mirate al consumatore e non solo sul distributore (porte aperte, degustazioni, promozioni ecc.)
    E’ questa la strada da percorrere se vogliamo che l’espresso italiano sia valorizzato, mettendo in secondo ordine le iniziative finanziarie che oggi prevaricano l’aspetto qualitativo del caffé.
    Le torrefazioni si adegueranno e i baristi anche.

  4. Antonello Monardo scrive:

    Caro Luigi, come ben sapete tu e Carlo, stá per uscire il mio libro: “PAZZO PER IL CAFFÈ, ANTONELLO MONARDO” bi-lingue edito dal Senac-Brasile, dato che mi avete aiutato nella traduzione all’italiano. Nella mia prefazione, prima dei ringraziamenti, ho proprio parlato su questo tema, che voglio anticipare a te e ai nostri lettori.

    “…Noi italiani, non abbiamo il piacere di avere il caffé piantato nelle nostre piantagioni, ma amiamo tutto quello che si riferisce al caffé. Per questo, dal momento che mi sono trasferito in Brasile, 13 anni fá, ho alimentato il desiderio di vedere i brasiliani apprezzare il caffè come noi, italiani, facciamo. Una domanda che mi viene sempre in mente quando penso al rapporto tra i brasiliani e La loro bevenda piú famosa è: “Chi, in Brasile, ha l’abitudine di restituire um caffé mal servito?”. La risposta è quasi sempre la stessa: nessuno! Da parte mia, tento cambiare questa situazione, attraverso i più di 30 corsi di barista che ho organizzato negli ultimi anni, oltreché a conferenze e workshop da me condotti, in Brasilia, dove quase il 60% dei partecipanti é composto da apprezziatori, proprio coloro che, in futuro, saranno i clienti esigenti capaci di iniziare una cultura di qualità la quale, sicuramente, andrà a beneficio di tutti….”