Mal di bar

Ripubblichiamo con interesse questo articolo di Sebastiano Garbellini, giornalista  e consulente horeca, apparso sul magazine on line Bartender.it

E’ un peccato che molto spesso le mie riflessioni nascano da esperienze quotidiane vissute tra i tavoli di qualche bar. Ma questo è anche il mio lavoro.

Mi spiace che la coniugazione del verbo accogliere si sia fermata alla seconda persona singolare con un bel punto di domanda, affiancato anche da un punto esclamativo. Non voglio essere saccente, perché di cose da imparare ne ho tante da riempire numerosi tomi.

Mi piaceva giocare su questo aspetto grammaticale per introdurre l’ennesimo mio pensiero raccolto in un momento di relax che ho voluto concedermi in un comodo divanetto di una nota caffetteria e pasticceria della mia città, decretata, tra l’altro, tra i migliori bar d’Italia con il premio bar dell’anno 2010 da una notissima torrefazione in un altrettanto nota guida gastronomica. Tre chicchi e tre tazzine. Quindi vado sul sicuro!…

Entriamo (anche in questa occasione non ero solo) e davanti mi trovo subito il bel bancone animato da diverse bariste, quattro se non ricordo male. Nessuna alza gli occhi o si volta per accoglierci, non tanto perché indaffarate nel loro mestiere quanto per una piacevole chiacchierata. Parentesi: ci sta, anzi, ma quando entra un cliente, che per me è sempre un gradito ospite, andrebbe per lo meno salutato. Educatamente, attendiamo un attimo tra l’uscio e il bancone, con la vana prospettiva di essere accolti e, se non accompagnati, almeno invitati ad accomodarci.

Il che prendo l’iniziativa e ci dirigiamo a un tavolo libero posto nella saletta a fianco. Ovviamente né le bariste né le cameriere ci hanno visto e quindi ignorano la nostra presenza. Attendiamo che qualcuno si accorga di noi.

Finalmente, una ragazza arrivata in sala per controllare gli altri ospiti ci nota e si dirige al nostro tavolo e ci saluta con un ‘bel’ e freddo: «Ditemi!» Al che, abbastanza stupito (chissà perché mi aspetto sempre un po’ di accoglienza ed educazione, soprattutto in locali che si fregiano di titoli riconosciuti) chiedo ‘umilmente’ la lista. Risposta altrettanto bella e fredda quanto la precedente: «Non l’abbiamo!» Senza dimenticare lo sguardo e l’espressione che si leggeva negli occhi. Questa volta spiazzato, ordino così la prima cosa che mi è venuta in mente: un caffè. La mia compagna una cioccolata calda con panna.

«Altro?», ci sentiamo chiedere. E cosa se non so che avete e che fate! Ecco una riflessione: se per scelta aziendale non esiste una lista, che almeno il personale sia in grado di dare delle indicazioni agli ospiti. Ammetto che potrebbe essere una buona operazione di marketing per ‘veicolare’ le consumazioni o per promuovere alcuni prodotti, ma visti i fatti non credo che sia per questo. Certo, ci siamo presentati in una caffetteria e pasticceria, possiamo immaginare cosa si può consumare, ma le varianti in tema caffè e dolci delicatezze sono pressoché infinite. Vabbè.

Arrivano il caffè e la cioccolata calda con panna: un espresso ‘corretto’ e una cioccolata ‘standard’. Niente di speciale, quindi, e se consideriamo i tre chicchi e le tre tazzine tutto perde drasticamente di valore: ‘i chicchi si riferiscono alla qualità del caffè inteso come bevanda e le tazzine sintetizzano il giudizio complessivo sul locale che tiene conto dell’offerta, del servizio, dell’ambiente e dell’igiene’. Di alto livello ci sono, però, i prezzi (un espresso e una cioccolata calda con panna 6,50 €).

Attenzione: il ‘giudizio’ personale è riferito allo specifico caso di questo rapporto prezzo e qualità in cui confluiscono anche l’accoglienza, l’offerta e il servizio. Appunto. A questo punto si è balenata una serie ripetuta di riflessioni e dubbi che elencarli tutti diverrebbe noioso e magari poco professionale.

Si parla tanto di accoglienza, vantando tra i pregi del Belpaese la grande ospitalità, ma questa, sempre più, viene meno. Sono i piccoli dettagli che fanno la differenza. È logico che quando mi accomodo ad un tavolo di un ristorante di alto livello, stellato o no, sono servito e riverito: con quello che si paga. È nelle situazioni quotidiane, in un locale anche comune, che si nota e si fa la differenza.

Anche con quel famoso caffè. Da tre chicchi. E tre tazzine. L’accoglienza e la cordialità con cui si ospitano i clienti è sempre più merce rara e non perché è a caro prezzo. Più semplicemente perché mancano i rapporti interpersonali da una parte e delle precise direttive dalla direzione del locale dall’altra che innanzitutto dovrebbero pretendere dai propri collaboratori l’attitudine a servire la gente, senza disinteresse e senza forzatura alcuna. Ci sarebbe da capire che l’accoglienza e l’ospitalità rappresentano un importante insieme di fattori e valori. In primis la più elementare educazione. Io accolgo. E tu?!

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4 Commenti a “Mal di bar”

  1. gardosi valerio scrive:

    Concordo in pieno le riflessioni del sig. Garbellini.
    Continuo a condurre il mio esercizio a testa bassa (nel senso lavorativo del termine) non avendo il tempo e le opportunità per battermi su questo triste problema che purtroppo grava su molti esercizi, non necessariamente bar e affini.
    Molta gioventù (sia peraltro benedetta) e dilettanti allo sbaraglio,si buttano in attività in proprio per non avere nessuno che gli dica cosa e come debbano fare e diventa difficile intervenire.
    Sappiamo tutti che questo comportamento dà un danno all’intero settore, ma come dicevo prima, mi sento impotente davanti a un così grande problema.
    Continuo a leggerVi sperando in un futuro migliore.
    Vi ringrazio tanto….leggendoVi cerco di cogliere gli spunti che mi aiutano a migliorarmi.
    Con simpatia
    valerio

  2. manuel terzi scrive:

    Esatto!
    Quello che manca è lo spirito dell’accoglienza.
    Anzi è la “vocazione” all’accoglienza.
    Ma temo, pessimista o realista, che non sia un piccolo male di una piccola categoria che è quella di noi baristi, temo che sia un male un po’ più diffuso…
    Ho figli giovani, che vanno a scuola, che hanno amici, che praticano sport, che vanno in chiesa e studiano musica.

    Che sono bravissimi ragazzi, puliti ed educati, ma che non “sentono” (come non sentono tantissimi loro coetanei e non solo), l’autorità;
    non sentono la sacralità di una cena insieme in famiglia, non percepiscono la…”grandezza” di una persona anziana, il rispetto per chi rispetto dovrebbe averne a quintali da tutti.

    Non “sentono” la gerarchia e l’autorità.
    E probabilmente quei baristi sono “prodotti” della nostra epoca, che colpe non hanno, ma che trovandosi in un fiume con una forte corrente, lentamente si fanno trascinare.

    Allora ai miei ragazzi (leggi figli, collaboratori, corsisti, ecc…..) cerco instancabilmente di ripetere il rispetto per chiunque/ognicosa lo meriti.

    Cerco di spiegare cha l’accoglienza è una vocazione, nessuno ci obbliga, ma, se non altro per superare la concorrenza, dobbiamo (da baristi qual siamo) riversare sull’ospite tutta l’ospitalità, il rispetto, la sacralità che possiamo; come fosse il nostro migliore amico che viene a trovarci a casa, come fosse il primo incontro con la donna (l’uomo) della vita…
    come fossi un grande maggiordomo in attesa del Signore al rientro a casa;
    La scuola dei grandi maggiordomi potrebbe ( e dovrebbe) insegnare molto a noi baristi…
    Ma questo “male” è accettato quasi universalmente, tanto che questo stesso aspetto è pressochè totalmente trascurato anche in competizioni di caffetteria, oltre che in tanti aspetti della vita.
    Come fanno i giovani a sentirlo? I giovani sentono quello che gli vien detto: le veline, il GF, il facebook, non la realtà, l’esperienza

    Probabilmente le bariste di quel blasonato locale seguono le direttive della proprietà, e fanno ciò che vien loro chiesto…

    Ma grazie a Dio noi non abbiamo i loro stessi titolari, perciò venga ripetuto instancabilmente a osti, amici e collaboratori: l’ospite è sacro.
    Gli venga tributata tutta la sacralità e tutta l’ospitalità.

    …poi, come vengono citate le migliori cucine ed i migliori locali, altrettanto dovremmo citare le “eccellenze” in negativo,
    per la sopravvivenza della specie (dei buongustai frequentatori di Locali).

    E così io faccio.
    A squarciagola.
    Per quel brutto carattere che ho.

    Scusate il dilungarmi, ma è una ferita aperta (e vasta).

    Manuel Terzi

  3. Gianluigi Sora scrive:

    Concordo pienamente col sig. Garbellini , purtroppo molto spesso ci dimentichiamo che il cliente paga e quindi vuole un servizio , però ricordiamoci che un sorriso non costa niente e certe volte è più gratificante che non tre chicchi o tre tazzine.

  4. antonio odierna scrive:

    è capitato anche a me con un mio collaboratore.purtroppo lui agiva a mia insaputa.il tutto mi è stato riferito da un gruppo di amici/clienti che hanno avuto modo di apprezzare la mia etica professionale,che naturalmente non corrispondeva al comportamento del mio collaboratore.
    ciò nonostante,dopo averlo avvisato,continuava a predicare bene e razzolare male.
    che dire….bisogna essere bravi e fortunati pure a scegliere i propri collaboratori!!